Agnese (figlia di Aldo Moro) e Grazia Grena (ex terrorista) insieme in un percorso di ri-conciliazione. Le due donne, cresciute in realtà opposte, sono diventate amiche e ora testimoniano sul nuovo approccio della giustizia, per non dimenticare le vittime e non emarginare i carcerati.

«Quando nel 1978 mio padre Aldo Moro è stato rapito e poi assassinato dopo 55 giorni dalle Brigate Rosse, la giustizia penale ha fatto il suo corso e ha dato a me e ai miei familiari tutto quello che avremmo potuto ottenere. Le persone responsabili sono state individuate, processate, giudicate, condannate e andate in carcere per tantissimi anni, e quindi io dovrei essere appagata e dire “ho avuto giustizia”. È importantissimo che tutto questo sia avvenuto e che quelle condanne abbiano ristabilito cosa noi come Paese accettiamo che sia fatto in nome della giustizia sociale e cosa no. In quegli anni si ricorreva alla violenza per affermare un desiderio di paese migliore, ma nel pratico si finì a fare peggio di quello che faceva lo Stato stesso, e quelle condanne stabilirono che da noi la politica si fa con le parole, e non uccidendo le persone.
Però, il fatto che delle persone siano state incarcerate per molti anni a me non restituisce niente, anzi mi ferisce se l’unica risposta che possiamo avere è fare dell’altro male alle persone: il dolore degli altri non attenua il mio, non mi guarisce, e soprattutto la mancanza di un caro rimane, e con questa tutto ciò che ne comporta, ti stravolge la vita e non solo nell’immediato, per sempre.»
È con queste decise parole che Agnese Moro ha introdotto la sua personale esperienza in occasione del convegno “Giustizia Riparativa, un incontro che apre al futuro” promosso dall’associazione “Fare Comune” del Monastero di Marango, guidata da don Giorgio Scatto, e svoltosi in Sala Parrocchiale a Caorle lo scorso 11 marzo nel contesto della manifestazione “La Via delle Donne”.
Anche mons. Danilo Barlese, parroco della Collaborazione pastorale di Caorle, ha portato la sua personale testimonianza degli Anni di piombo. Infatti, quando frequentava le superiori a Mestre fu compagno di studi di alcune persone che vennero negli anni successivi uccise dai terroristi, tra cui Giuseppe Taliercio, direttore dello stabilimento petrolchimico della Montedison a Porto Marghera, e ammazzato nel 1981 dalle Brigate Rosse dopo 46 giorni di sequestro (in modalità similari all’omicidio di Aldo Moro).
Un incontro memorabile per l’importanza dei contenuti espressi dai relatori, Agnese Moro, appunto, e Maria Grazia Grena, ex-terrorista negli anni ‘70-‘80, condannata per organizzazione di banda armata e rapina a otto anni, si è poi dissociata dalla lotta armata e ora opera volontaria a sostegno dei carcerati. Le due donne, provenienti da mondi completamente opposti, negli ultimi quindici anni hanno affrontato un lungo percorso con la giustizia riparativa, sviluppando un profondo e sincero rapporto di amicizia, e ora portano avanti questi incontri nelle scuole e nelle occasioni pubbliche in tutta Italia per sensibilizzare su un tema molto attuale, sia per quanto riguarda le recenti polemiche sul regime carcerario speciale del 41bis, sia alla luce della recente riforma Cartabia, che ha dato una definizione di giustizia riparativa delineando una serie di principi, obiettivi e garanzie per i programmi dedicati.
All’incontro hanno partecipato anche le forze dell’ordine, nonché la dott.ssa Fausta Favotti, responsabile dell’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Gorizia, ossia l’ufficio preposto a trattare le misure riparative alternative. Come referente locale se ne occupa la criminologa dott.ssa Valentina Rainone, che collabora proprio con l’Uepe di Gorizia.

Cos’è la Giustizia Riparativa
Il convegno è stato introdotto e moderato da Anna Cattaneo, pedagogista presso il centro di Giustizia riparativa di Bergamo, la quale ha spiegato cos’è questo nuovo approccio di giustizia attraverso una bellissima storia di riconciliazione.
«Quando conduco questi incontri ho sempre un sentimento di gratitudine da rivolgere alla vita e ad Agnese e Grazia, perché sono testimoni che fare Pace è possibile in questo mondo, anche quando succedono cose gravissime che sconvolgono profondamente la nostra vita. Le considero dei fari nel mio cammino.
Questa è una storia di grande dolore e di grande amore, è iniziata tanto tempo fa, nel 2008, quando tre persone lungimiranti e generose – padre Guido Bertagna (teologo gesuita), Claudia Mazzuccato (docente universitaria di diritto penale) e Adolfo Ceretti (docente universitario di criminologia) si sono messi insieme e hanno deciso di costituire un gruppo di persone composto da autori di reati della lotta armata e vittime dirette e indirette di quegli anni. L’obiettivo di questo percorso è offrire uno spazio di ascolto, incontro, e riconoscimento reciproco, la possibilità di attraversare insieme il dolore che ancora non era stato possibile affrontare. Siamo figli di un modello di giustizia retributivo, per cui rispondiamo al male che viene commesso con il male della pena, e il nostro modello assume come necessaria la violenza per ripristinare il bene.
La giustizia riparativa, invece, apre a uno scenario completamente nuovo e sostiene che si può rispondere al male commesso anche attraverso il bene, attraverso una via di incontri e di dialogo dove le persone si incontrano tra di loro e toccano il dolore causato nell’altro.
Questo vale anche per le vittime, le quali possono così percepire il dolore provato dall’autore del reato che l’ha portato a commetterlo, perché come sappiamo, nessuna persona serena interiormente delinque. E quindi a volte questi atti criminosi hanno origine da una ferita, magari da un senso di ingiustizia.
Solo grazie a questi incontri, riconoscendo il dolore, è possibile che le persone attirino – incontrando lo sguardo dell’altro – una possibilità per responsabilizzarsi sinceramente. Il tema è attivare percorsi di responsabilizzazione, e non sempre questo il carcere lo consente, anzi molte volte le persone che vanno in carcere, finiscono per sentirsi vittime di un sistema, e a loro volta sentono di doversi difendere da questo, dimenticando il vero motivo per cui sono entrate in carcere.
La possibilità di incontrare le vittime fa prendere coscienza, in modo da intraprendere un percorso di cambiamento. La giustizia riparativa apre alla possibilità di trasformarsi assumendo fino in fondo la responsabilità di ciò che si ha commesso, è una giustizia che ridà spazio alle vittime, le quali hanno la necessità di avere un luogo dove gridare il loro dolore. Nelle aule dei tribunali non è concesso. Dove portano le vittime la loro domanda di giustizia? La necessità di sapere la verità, cos’è veramente accaduto, la domanda “Perché hai fatto questo? Perché a me? Come hai potuto?” e anche l’esigenza di dire “Non lo devi più fare, non deve più succedere”.
Ma l’attenzione non va solo sul reato, bensì sulla relazione che ogni reato lede, perché noi siamo legati da un patto sociale che viene tradito ogni volta che succede un atto criminoso, e quella relazione va ricucita, quindi non è solo un affare privato tra vittima e autore, ma riguarda tutta la comunità. Ogni comunità non è mai del tutto innocente quando succede un atto criminoso, la comunità è responsabile, si deve chiedere come mai è successo.
Nel percorso intrapreso nel 2008, la comunità è stata ospitata attraverso la partecipazione di un gruppo di persone terze, non protagoniste dei fatti di quegli anni – tra cui io che sono nata dopo, per cui sapevo poco se non quello che avevo studiato a scuola. Questo perché le persone (vittime o autori) non continuassero a rispecchiarsi solamente gli uni negli occhi degli altri, confermando semplicemente lo stato di partenza.
Nel 2015 è stato pubblicato “Il libro dell’incontro” che racconta questo percorso in modo approfondito. La giustizia riparativa non è una scorciatoia, è un’allungatoia: il percorso ha richiesto molto tempo, sia cronologico che qualitativo, abbiamo speso molto tempo insieme, e le persone vivevano anche assieme per una settimana di seguito. Stare di fronte all’altro che ho ferito non è semplice, è molto impegnativo, e così anche per le vittime perché ogni volta significa tornare a quella ferita, e avere la capacità di stare di fronte all’irreparabile matura una responsabilità per andare avanti.
In questo modo è stata ricreata una relazione, tra cui quella di Agnese Moro e Grazia Grena, che raccontano la loro esperienza e come ha cambiato le loro vite.
Tutte le persone che hanno partecipato a questo percorso hanno già scontato il loro debito con la giustizia: pertanto avrebbero potuto fare altro, non era necessario per loro agli occhi dei più. Invece loro hanno sentito che questo era un passo necessario per ritornare a vivere. Agli autori di reato abbiamo tolto la maschera del mostro che avevano, mentre alle vittime abbiamo tolto la maschera del dolore, il quale può diventare molto tirannico e tenere in ostaggio le nostre vite. Agnese una volta ha detto una cosa molto bella: “anche io voglio essere ex-vittima” perché questa etichetta può condannare le persone a vivere una vita che in realtà non vorrebbero, e non a causa loro.
Questo cammino non è soltanto uno sguardo al passato, vuole costruire il futuro. Ma anche il nostro Paese ha bisogno di tornare su ciò che è successo, rielaborarlo per fare in modo che non accada mai più. Così, il futuro non sarà uguale a ciò che è passato.»
L’esperienza del carcere
Dopo l’introduzione di Anna Cattaneo, ha raccontato la sua commovente storia Agnese Moro, e infine ha preso parola Grazia Grena: «Rivolgo immensa gratitudine ad Agnese e tutti i partecipanti del percorso per avermi semplicemente ascoltata. Quando li ho incontrati ero convinta di essere a posto con me stessa, e di aver fatto tutto il possibile. Mi ero dissociata dalla lotta armata perché avevo capito che fu un grosso errore, e andava detto perché abbiamo avuto tutti delle responsabilità sociali.
Ho attraversato la pena con molta fatica, carceri duri (allora c’era l’art. 90, che non aveva nulla da invidiare all’attuale 41bis), e vi garantisco che in quella esperienza non c’è stato pentimento, bensì il convincimento di aver fatto la cosa giusta, che lo Stato era “cattivo” e andava combattuto.
Non è stato il carcere a cambiarmi, ma è lì che ho scoperto il dialogo, e mi sono scoperta al pari degli altri. Una grande cosa della giustizia riparativa è la pari dignità.
Ma al 41bis non si cambia, ci si pietrifica in quello che si è, e non aiuta. Certo, arrivi lì perché sei stato disumano, magari convinto di esprimere umanità. Ma la nostra umanità l’abbiamo ritrovata con le relazioni, e ci siamo resi conto dei grandi errori commessi, dove per combattere il nemico ne eravamo diventati figli, non eravamo diventati migliori, ma eravamo peggiori, non abbiamo avuto nessuna regola democratica.
La mia pena l’ho finita nel 1990, dal carcere sono uscita la prima volta nel 1986, ho avuto fortuna, ma non avevo reati irreparabili. Dopo la mia pena ho avuto la fortuna di stare con persone che mi hanno accolta, perché non avevo lavoro, ormai ero cresciuta, mi sono reinventata professionalmente e ho cercato di aiutare i carcerati, proprio come io ero stata aiutata. La scrittura mi ha aiutata molto a ricomporre i pezzi. Nel 2010 è iniziato il mio percorso con la giustizia riparativa e mi sono resa conto che c’era ancora molto da fare. Sono stata ascoltata dalle persone a cui avevo fatto più male, e siamo riusciti a ricomporre le nostre vite.
Eravamo la metà che mancava alle vittime, e loro erano la metà che mancava a noi. Un percorso di ri-composizione che ci ha permesso di essere riaccolti nella comunità, un dono enorme, un punto d’arrivo per la nostra storia. La quale però non finisce mai, perché ogni volta che ci esponiamo in pubblico, vuol dire riattraversare il nostro passato difficoltoso. Io ritorno la colpevole di ieri, Agnese ritorna la vittima di ieri, anche dopo così tanti anni. Ma grazie al percorso di libertà che abbiamo fatto ho imparato ad accettare le mie ombre. Mia madre ha vissuto delle cose spaventose: sua figlia è stata una terrorista. Io avevo deciso di esserlo, lei no. Spero pertanto con questo profondo percorso di aver curato anche le sue ferite e quelle dei miei familiari.»
Un commosso e prolungato applauso è partito dalla sala gremita al termine del racconto delle due donne, a testimonianza che la loro esperienza ha toccato tutti nel profondo.