14 NOVEMBRE 1951 - Settant’anni fa avveniva la “ROTA DEL PO” con l’inondazione del Polesine. Un racconto di vita nel ricordo di un tragico evento che coinvolse anche la nostra città

Da diversi giorni diluviava. Il Po continuava a salire.
Lungo gli argini gli uomini facevano la guardia giorno e notte, muniti di fanali a petrolio, sacchi di sabbia o di terra, pronti a tentar di tappare ogni fuoriuscita d’acqua. Si temeva anche per l’Adige.
Allora non esisteva la Protezione Civile: tutto era affidato alla buona volontà e alla solidarietà della gente.

Io, giovanissima diplomata maestra, appena ventunenne, la mattina del 14 Novembre 1951, mi trovavo nella Direzione Didattica di Cavarzere, pronta ad iniziare la sera stessa il mio primo incarico di insegnante: un corso di scuola elementare per adulti. Ero euforica per quel primo lavoro!
A metà mattina però giunse la notizia drammatica che temevamo: il Po aveva rotto gli argini ad Occhiobello. Da Venezia arrivò il Prefetto.
Dal viso pieno di terrore dell’Ispettore scolastico che ci dava le notizie, capii che la cosa era grave.
Parseghi Sceichiang, figlio di un armeno sopravvissuto al genocidio dei suoi connazionali e profugo in Italia, con la sua Lambretta mi accompagnò a casa.
Per la strada incontravamo già famiglie incolonnate lungo gli argini che stavano scappando con poche povere masserizie, qualche gallina, delle mucche ma, soprattutto con vecchi e bambini infagottati in qualche modo per ripararli dall’umidità e dal freddo.
Nei loro volti lo spavento, la disperazione. Non bastava la guerra finita da poco, che li aveva lasciati vivi sì, ma senza niente, solo con gli occhi per piangere e il coraggio per ricominciare.
Scansando carretti, mucche e bici, arrivammo a casa. Era ormai mezzogiorno e nella nostra abitazione, una grande casa colonica, cominciarono ad arrivare i primi profughi fuggiti dalle zone più basse e alluvionate. Nel pomeriggio furono messe a disposizione scuole, stalle, portici, fienili come primi alloggi per queste persone, in attesa di una migliore sistemazione lontano dal pericolo immediato.
Anche la scuola di Cona, dove avrei dovuto tenere i corsi A e B per adulti, fu occupata dagli sfollati.
Mi misi allora a disposizione per soccorrere i profughi alloggiati. Mi dedicavo a tempo pieno e con tutta l’anima per alleviarne le sofferenze; distribuivamo colazioni, pranzi e cene a migliaia di persone: la cucina funzionava a pieno ritmo. Era tanto numerosa la gente che si rivolgeva a noi per avere un pasto caldo, che dovemmo istituire tagliandi e tessere personali.
All’ora di cena arrivavano anche i Lagunari del Battaglione San Marco, bagnati, infreddoliti e affamati per essere stati tutto il giorno con i mezzi anfibi a perlustrare le zone allagate e trarre in salvo la gente rifugiata sui tetti delle case sommerse dalle acque.
C’era sempre una grande richiesta di coperte e di viveri, l’aula adibita a magazzino, ben rifornita al mattino, di sera rimaneva quasi vuota.
Una mattina la suora addetta ai viveri spalancò la porta del magazzino e ci disse che era arrivato “Lucifero”, non il diavolo, bensì il Ministro dell’ex re Umberto II di Savoia (conosciuto col soprannome di “Re di Maggio”) che dall’esilio in Portogallo, attraverso la Svizzera, aveva mandato aiuti agli Italiani colpiti da così grave catastrofe.
Per famiglie e bambini si trovarono via via sistemazioni migliori. Io stessa potei iniziare il mio corso serale.

Attraverso l’intervento del Patriarca di Venezia, ricevemmo l’aiuto delle Assicurazioni Generali di Ca’ Corniani per l’ospitalità di cento bambini nell’azienda agricola affinché potessero continuare la scuola in qualche modo lontano dall’emergenza.
Nel paese di Cona, appena si seppe che c’erano tanti posti disponibili in questa località del comune di Caorle, sicura e accogliente, le mamme del paese implorarono di inviare lì anche i loro figli: “Dateci una mano, per carità, anche noi abbiamo molti bambini e non sappiamo come mantenerli, viviamo del lavoro agricolo saltuario e ora che arriva l’inverno non sappiamo come riscaldare le nostre case e come riparare dal freddo i nostri piccoli”.
Subito acconsentimmo. La mattina del 7 Dicembre 1951, con due corriere partimmo per Ca’ Corniani; a me è spettato il compito di accompagnarli.
Abbiamo viaggiato parecchie ore, perché fuori della Provinciale Triestina Bassa c’erano solo strade bianche e argini dei fiumi.



Il Parroco e il Direttore dell’Azienda Ca’ Corniani ci accolsero con calore e subito ci mostrarono gli alloggi preparati per i bambini nel camerone del fabbricato detto “De a campanèa” e poi i locali dove le nostre giovani maestre, arrivate al seguito, avrebbero fatto scuola e li avrebbero guidati fino alla fine dell’anno scolastico.


Durante quei mesi, molti genitori ebbero modo di fare visita ai loro piccoli, sempre ben accolti dalla popolazione che per tutti i mesi dell’inverno li aveva “adottati” con grande disponibilità e supporto morale.
Alla fine del periodo, così come all’arrivo, furono scattate foto a ricordo di quell’esodo. I visetti dei bambini appaiono sempre sorridenti, specialmente in occasione di festività quali il Natale e l’Epifania, a testimoniare una solidarietà che a tutti ha dato conforto e speranza.

Non tutti i profughi, grandi e piccoli, hanno poi fatto ritorno in Polesine: molte famiglie, avendo trovato una buona sistemazione altrove, non sono più tornate nelle loro terre di origine.

Il destino, a volte, ha i suoi corsi e ricorsi imperscrutabili. Infatti, nel 1958 arrivai a Caorle come insegnante di ruolo ordinario, e dal 1 Ottobre 1960 al 30 Settembre 1988 ho sempre insegnato proprio a Ca’ Corniani, dove lo stesso destino mi aveva fatto giungere una prima volta in quello sfortunato autunno del 1951.
C’è ancora molta gente, specie tra gli anziani di Ca’ Corniani, che ricorda quei bambini e quelle giovanissime maestre appena diplomate, giunte dal Polesine alluvionato.
A cura di Beatrice Giuriato.